Il metodo della ricerca criminologica
È stato osservato che, nel corso dell’evoluzione della criminologia, una delle problematiche maggiormente dibattute sia sempre stata quella relativa al metodo più idoneo da adottare perché tale disciplina possa acquisire le connotazioni di una scienza rigorosa e definire adeguatamente il proprio oggetto di studio.[1]
La criminologia come scienza
La scientificità della criminologia, da taluni affermata e da altri negata, risulta strettamente connessa alla possibilità di effettuare, nel suo ambito, attività di ricerca e di verifica empirica delle ipotesi formulate. Da qui, l’importanza che ha sempre rivestito l’elaborazione di un rigoroso metodo di acquisizione e valutazione dei dati attinenti ai fenomeni criminali. Come qualunque altra disciplina scientifica, anche la criminologia deve poter presentare alcune ineludibili connotazioni, degli indispensabili requisiti che, basandoci sulla dottrina più autorevole[2], possiamo così sintetizzare:
- sistematicità: le conoscenze acquisite devono rivelarsi strutturate ed armoniche;
- capacità teoretica: la ricerca deve poter approdare ad enunciazioni astratte logicamente idonee a spiegare e ad interpretare i fenomeni oggetto di indagine;
- verificabilità: le proposizioni formulate non possono sottrarsi ai riscontri necessari per verificarne la fondatezza;
- capacità cumulativa: l’attitudine a formulare teorie che derivino l’una dall’altra;
- capacità predittiva: attitudine, questa, limitata nell’ambito delle condotte umane.
La ricerca criminologica segue, di massima, lo schema proprio di ogni analisi a carattere scientifico, con la possibilità di adattamenti resi necessari dalla peculiarità dell’argomento preso in esame. In sintesi, tale schema può articolarsi come segue:
- individuazione del tema di indagine ed eventuale formulazione di una o più ipotesi da sottoporre a verifica;
- pianificazione della ricerca;
- raccolta dei dati;
- analisi ed elaborazione dei dati;
- verifica delle ipotesi formulate.
L’individuazione del tema di indagine (n. 1) e la pianificazione della ricerca (n. 2)
risultano strettamente correlate alle finalità che l’analisi intende perseguire. Essa può essere descrittiva (o conoscitiva), tesa cioè all’acquisizione della conoscenza di un determinato fenomeno o causale e, dunque, mirare all’individuazione delle cause che hanno determinato il fenomeno stesso. Tali finalità ben possono coesistere nella pratica. Nel pianificare il lavoro, il criminologo può avvalersi di teorie relative al fenomeno considerato mutuate da altri o formulate direttamente.
La successiva fase della raccolta dei dati (n. 3)
richiede l’individuazione delle fonti delle informazioni, le modalità o le procedure di rilevamento e, se necessario, il campione da sottoporre ad analisi. L’acquisizione delle informazioni potrà assumere i connotati della ricerca trasversale, se tesa a rilevazioni di dati provenienti da differenti gruppi di soggetti in uno stesso momento (è il caso, ad es., del raffronto tra peculiarità riscontrabili in un gruppo di detenuti ed in un campione di soggetti non delinquenti) o della ricerca longitudinale, se interessata al riesame, in tempi diversi e successivi, del medesimo campione di soggetti (ad es., il monitoraggio periodico dell’evoluzione comportamentale di un gruppo di soggetti minori a rischio di devianza). Si è soliti parlare, in quest’ultimo caso, anche di ricerca catamnestica o di follow-up. In tale fase risulta imprescindibile, per il ricercatore, conformarsi a severi criteri di ordine etico e deontologico: si dovrà rispettare l’anonimato dei dati raccolti ed operare solo con soggetti che aderiscano volontariamente alla ricerca.
Le modalità di elaborazione dei dati (n. 4)
risultano in larga parte dettate dalla specifica tipologia di studio alla quale il criminologo intende dedicarsi. Informazioni acquisite con un approccio quantitativo risulteranno particolarmente utili per elaborazioni statistiche, dati di tipo qualitativo potranno essere sottoposti a processi valutativi di tipo induttivo per approdare ad enunciazioni di carattere generale basate, appunto, sull’osservazione di dati particolari.[3] Si approda, infine, alla fase della verifica delle ipotesi formulate (n. 5).
Il ricercatore dovrà sempre porsi dinanzi ai fenomeni studiati con prudenza, lucidità ed umiltà, consapevole della provvisorietà dei risultati cui una ricerca è suscettibile di approdare e, in generale, della fallibilità umana. “Tutta la nostra conoscenza rimane fallibile, congetturale”, afferma Karl Popper (1902-1994), “La scienza è fallibile perché la scienza è umana”.[4] Tale consapevolezza, accuratamente coltivata, dovrebbe impedire al criminologo e, in generale, allo scienziato (oltre che, ad es., al magistrato inquirente ed all’investigatore) di abbandonarsi ad inappropriate valutazioni di dati incompleti e ad interpretazioni viziate da parzialità e preconcetti.
Verifica delle ipotesi formulate.
Per quanto concerne, specificamente, la fase della raccolta dei dati, è stato considerato che essa costituisce il momento fondamentale delle attività di ricerca sulle problematiche esaminate”.[5] La criminologia viene spesso definita una scienza multidisciplinare ed interdisciplinare e ciò comporta, per quanto riguarda la ricerca e la raccolta del materiale da esaminare, un’ampia varietà di scelta delle fonti e delle tecniche di acquisizione delle informazioni. Su tali scelte, tendono ad incidere la formazione del criminologo (antropologica, psicologica, sociologica, giuridica, investigativa), i suoi peculiari interessi e le esperienze maturate. È ovviamente possibile rapportarsi ad un determinato fenomeno con un approccio integrato, che rispecchi la complessità del fenomeno criminale, grazie all’eclettismo del singolo studioso o al contributo sinergico di vari esperti caratterizzati da differenti estrazioni culturali.
In sintesi, possiamo distinguere tra:
- ricerche basate su una raccolta diretta dei dati;
- ricerche che rielaborano materiali già esistenti.
Le tecniche di indagine
La prima tipologia di ricerca si avvale di modalità operative quali il colloquio, l’intervista, il questionario, le tecniche di laboratorio e l’osservazione diretta. La scelta di uno specifico strumento di acquisizione dei dati è strettamente connessa con il peculiare approccio analitico che il criminologo intende applicare. Se egli desidera raccogliere un consistente numero di dati, secondo un approccio appunto definito quantitativo, e sottoporli ad una analisi di tipo statistico, potrà utilmente valersi di modalità di raccolta strutturate, come il questionario; se lo interessa invece un approccio qualitativo (nell’ambito del quale i dati vengono acquisiti sotto forma di parole e non di numeri), ben potrà impiegare strumenti caratterizzati da una maggiore flessibilità, come il colloquio clinico, l’osservazione diretta e la raccolta delle cd. storie di vita. Numerosi autori preferiscono affidarsi ad approcci qualitativi, ritenuti più idonei a “rappresentare la complessa realtà del crimine e che si basano sulla ricerca di similitudini, connessioni logiche e funzionali tra i fenomeni studiati”.[14]
Il colloquio
Il colloquio è lo strumento più caratterizzante dell’approccio analitico “clinico”, cioè orientato su singoli soggetti per individuarne peculiari caratteristiche personologiche. È stato impiegato fin dagli esordi degli studi di antropologia criminale e vi si è ricorso principalmente per porre in evidenza, nel soggetto esaminato, eventuali anomalie psicologiche, psichiatriche, sociali. Il colloquio può ricomprendere anche la somministrazione di test psicologici, quelli cd. di efficienza (attitudinali, di intelligenza) e quelli di personalità (obiettivi, proiettivi). Il ricorso ai test, comunque, risulta oggi meno frequente rispetto al passato, “dopo che si è diffuso un atteggiamento più cauto rispetto alla loro attendibilità”.[6]
Il colloquio criminologico differisce da quello psicologico e psichiatrico: si svolge, di norma, in un contesto istituzionale e presuppone necessariamente che l’interlocutore sia stato giudicato colpevole di uno o più reati. Il suo scopo è quello di acquisire informazioni sulla personalità del reo, in relazione alla genesi ed alla dinamica del reato ed approdare a valutazioni circa il suo trattamento rieducativo e risocializzativo e la possibilità che il soggetto torni a delinquere.[7] Giungere ad una adeguata elaborazione dei dati acquisiti in tali circostanze può rivelarsi arduo per il criminologo: il soggetto interrogato può, ad es., fornire risposte non veritiere per compiacere l’interrogante e soddisfare le sue aspettative, per manie di protagonismo o per ottenere un qualche genere di vantaggio.
L’intervista
L’intervista risulta utile in ricerche a carattere sociologico e può connotarsi con differenti gradi di interattività. In generale, il rapporto tra intervistatore ed intervistato si sviluppa come una relazione reciprocamente condizionata: secondo Pope e Seigman, quindi, un registro relazionale partecipe favorisce il processo di comunicazione e la produttività verbale.[8] Come detto, tale tecnica è, comunque, suscettibile di presentare differenti livelli di strutturazione: può essere libera o, appunto, destrutturata e somigliare dunque al colloquio; può collocarsi ad un livello medio di formalizzazione, riferendosi ad una serie specifica di punti tematici (la cd. “griglia”); può, infine, assumere una forma rigida, sostanziandosi in un vero e proprio questionario.
I questionari
I questionari, a loro volta, si connotano variamente: alcuni presentano domande aperte e consentono all’intervistato piena libertà di risposta, altri – di tipo “chiuso” – obbligano il soggetto a scegliere tra due o più risposte preimpostate. I questionari chiusi rendono di certo più agevole la raccolta dei dati ma, nella loro rigidità, possono approdare a risultati non attendibili perché l’intervistato può non riconoscersi pienamente in nessuna delle risposte che gli vengono presentate. Circa le modalità di somministrazione, è poi appena il caso di precisare che i questionari possono essere compilati direttamente dal soggetto cui sono proposti tramite modulo prestampato o con l’aiuto dell’intervistatore.
Definita la modalità di intervista da impiegare, si procede all’individuazione del gruppo di soggetti cui rivolgere le domande. Si parla, in proposito, di “campione”, che deve essere il più ampio e rappresentativo possibile. È necessario che sussista, insomma, una reale, effettiva corrispondenza tra le caratteristiche del campione esaminato e la popolazione generale, definita “universo” dal punto di vista statistico. L’individuazione del campione può avvenire secondo un criterio probabilistico, mediante l’impiego di tecniche di estrazione casuale, o non probabilistico, in conformità con determinate scelte dei ricercatori o con selezioni non casuali.
Tecniche di laboratorio
Le tecniche di laboratorio, come strumento di raccolta dei dati, afferiscono a particolari casi di osservazione clinica o alla verifica di ipotesi riconducibili all’approccio biologico “ed hanno applicazione piuttosto limitata in criminologia”.[9]
L’osservazione diretta
L’osservazione diretta monitora il comportamento dei soggetti considerati nel loro ambiente naturale, le loro modalità di interazione e di comunicazione verbale e non verbale. L’osservazione diretta si connota come non partecipante, quando il ricercatore mantiene una distanza tra sé ed i fenomeni oggetto di analisi e partecipante, che vede il ricercatore interagire direttamente con i soggetti che lo interessano, cercando di instaurare con loro un rapporto di fiducia.
Nell’osservazione non partecipante, il criminologo resta per così dire sullo sfondo, raccogliendo sistematicamente dati, approfondendo conoscenze, con l’auspicio di giungere a comprendere le motivazioni che animano i soggetti osservati. Per fare ciò, “il ricercatore fa uso di specchi unidirezionali, visori notturni, videocamere e registratori. Ovviamente, questi strumenti sono di supporto al solo scopo scientifico, diversamente da quanto avviene nelle operazioni di polizia giudiziaria o dei servizi segreti”.[10] Un esempio di ricerca criminologica condotta attraverso l’osservazione non partecipante è costituito da alcuni studi americani sul comportamento aggressivo e deviante tra giovani di sesso maschile. Per convalidare l’ipotesi di partenza – secondo cui tali condotte potevano risultare connesse all’assenza di disciplina imposta dai genitori ed alla loro scarsa capacità di gestione familiare – gli studiosi hanno effettuato periodiche osservazioni delle interazioni familiari di un gruppo di riferimento, giungendo in tal modo ad evidenziarne le peculiari dinamiche.[11]
Nell’osservazione diretta partecipante, lo studioso acquisisce lo stile di vita del gruppo preso in esame “fino ad avere la completa opportunità di conoscere e capire il mondo dal punto di vista dei soggetti osservati. […] Il rischio di tale metodo è che si arrivi ad una interpretazione neutrale della realtà, perciò priva di ogni connotazione esplicativa e critica: l’osservatore partecipante, in altre parole, può diventare, ad un certo punto, un ‘partecipante non osservatore’”.[12] Il metodo dell’osservazione partecipante è stato adottato, ad es., da H.S. Becker per studiare i fumatori di marijuana, di cui ha potuto osservare i rituali e le interazioni, al fine di porre in evidenza il ruolo dei fattori microsociali nella produzione degli effetti della droga.[13]
Osservazioni
Come sopra accennato, è anche possibile che il criminologo si dedichi ad esaminare del materiale già esistente, raccolto in precedenza da altri. Esso consiste, in genere, in statistiche, atti giudiziari, studi di settore, cartelle cliniche, materiale d’archivio. Quest’ultimo può ricomprendere, ad es., documenti personali quali lettere, diari, memoriali, confessioni, o materiale pubblicato. Non è insolito che l’analisi criminologica di tale materiale si riveli difficoltosa perché esso risulta redatto con finalità diverse rispetto a quelle dell’analista, o perché presenta lacunosità e difficoltà di interpretazione.
In genere, si procede applicando a tali fonti uno schema analitico predefinito (“griglia di lettura”) per scomporre il testo esaminato e classificare le informazioni che se ne traggono. L’analisi documentale ha registrato utili applicazioni, ad es., nella criminologica storica. “L’interesse per il metodo storico in criminologia”, considerano Bandini e Al., “si è ridestato negli anni sessanta [del Novecento], sulla scia della crisi delle metodologie quantitative basate sull’analisi statistica, e sulla base di una nuova evoluzione delle discipline storiche, che si sono aperte ai fenomeni sociali ed hanno iniziato ad occuparsi non più soltanto delle gesta dei grandi uomini, ma anche della vita quotidiana nelle diverse epoche”.[15] Gli studi storico-criminologici si sono variamente connotati ed hanno preso in esame tanto fenomeni sviluppatisi in un lasso di tempo molto ampio[16] quanto tematiche riconducibili ad ambiti più circoscritti.[17]
L’analisi statistica in criminologia
L’analisi statistica dei dati svolge un ruolo di rilievo nell’ambito della ricerca sui fenomeni criminali e pone una serie di problemi che meritano attenta valutazione. È stato osservato che la statistica non fornisce l’effettiva rappresentazione di un fenomeno bensì i percorsi della sua rilevazione ufficiale[18]: da ciò deriva un non indifferente margine di ambiguità da cui può scaturire il rischio di errata percezione del fenomeno monitorato, per eccesso o per difetto. Tale rischio risulta particolarmente elevato proprio riguardo ai dati sulle condotte criminose ad ai soggetti che le pongono in essere.
Consideriamo, in primis, che di regola i dati sui reati afferiscono ai delitti e non alle contravvenzioni. Ciò perché, nella maggior parte dei casi, queste ultime definiscono fattispecie di scarso rilievo. A ciò si potrebbe, invero, obiettare che il nostro codice penale prevede e punisce certi reati di natura contravvenzionale con pene detentive di maggiore durata rispetto a quelle stabilite per alcuni delitti e che, comunque, lo studio di tali fenomeni non risulterebbe certi privo di interesse a fini scientifici. In ogni caso, non esiste una sistematica e completa rilevazione delle violazioni di legge integranti contravvenzioni e costituenti reato, né di quelle che, pur non riconducibili alla categoria dei reati, siano passibili di sanzione amministrativa. Tale carenza può attribuirsi alla concreta difficoltà di acquisire i relativi dati presso le varie articolazioni istituzionali preposte ad accertare e contestare le violazioni in questione.
Altra necessaria precisazione, relativamente ai dati impiegati nell’analisi criminologica di tipo statistico, è che essi riguardano i soli reati rientranti nella cognizione della magistratura ordinaria, con l’esclusione quindi di quelle speciali (ad es., i tribunali militari). Oltre a quelli provenienti dalla magistratura ordinaria, dati utili ai nostri fini – pur nella già considerata consapevolezza che le raccolte di informazioni esistenti risultano in genere inidonee a consentire la percezione della reale entità di un fenomeno – possono rivelarsi, ad es., quelli acquisiti dai comuni maggiori e dalla polizia stradale.
Un altro problema nel quale invariabilmente si imbatte chi studia i fenomeni criminali dal punto di vista statistico attiene al momento utile in cui rilevare le informazioni relative ai singoli casi che concorrono a costituire il fenomeno di cui ci si interessa: il significato dei dati “dipende proprio dal momento della loro rilevazione”.[19] In altri ambiti di studio, infatti, le informazioni relative ad un dato fenomeno vengono acquisite nel momento in cui giungono a conoscenza dell’organo rilevatore stesso. Ad es., la rilevazione di nascite, morti e matrimoni coincide con la loro denuncia e le relative date sono quelle in cui i fatti in questione si sono verificati. Il rilevamento di eventi criminosi non avviene, è evidente, in modo altrettanto automatico; non tutti vengono, inoltre, a conoscenza dell’autorità giudiziaria e non necessariamente riferiti alla data in cui sono stati posti in essere. Ciò può dipendere dal fatto, ad es., che in taluni casi la vittima di crimini perseguibili a querela della persona offesa può essere indotta a subirli senza denunciarli; in altri casi, può risultare arduo se non impossibile collocare temporalmente delitti articolati in vari atti compiuti in differenti occasioni e contesti.
A questo si aggiunga che la qualificazione di un atto come delittuoso viene effettuata dall’autorità giudiziaria successivamente ad una denuncia ed al procedimento che ne scaturisce. La riforma del codice di procedura penale del 1988-89 identifica l’inizio dell’azione penale con la formulazione dell’imputazione nei confronti dell’indagato (art. 405 c.p.p). Dal punto di vista che qui ci interessa è dunque comprensibilmente esclusa la possibilità di procedere alla rilevazione dei dati riferiti ai casi in cui sia disposta l’archiviazione del procedimento per infondatezza della notitia criminis, o per estinzione del reato, o perché il fatto non costituisce reato o in assenza di altra condizione di procedibilità. L’analisi statistica che si interessi agli autori di reato dovrà perciò focalizzarsi sui soggetti condannati con sentenza irrevocabile.
L’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) pubblica periodicamente l’Annuario di statistiche giudiziarie penali, che rappresenta la fonte più utile negli studi qui considerati. In esso rivestono particolare interesse criminologico la statistica della criminalità, che riporta i dati relativi ai delitti ed ai soggetti denunciati, nel corso dell’anno, all’autorità giudiziaria e la statistica della delittuosità, costituita dai dati forniti, a cadenza mensile, dalle forze dell’ordine sui delitti conosciuti e le persone denunciate. Nella pubblicazione vengono poi inserite la statistica processuale, relativa all’attività degli organi della giurisdizione penale; le statistiche penitenziarie, che hanno ad oggetto il movimento dei detenuti negli istituti di pena ed i loro connotati socio-demografici; la statistica dei suicidi e dei tentati suicidi, con dati acquisiti da carabinieri e polizia. Consideriamo, infine, che “non esistono, in Italia, rilevazioni costanti sulle vittime dei reati, come invece avviene in altri Paesi. Le notizie, quindi, sui soggetti passivi del reato, si hanno solo grazie alle indagini sulla vittimizzazione e su determinati delitti”.[20]
Negli Stati Uniti, i dati sulla criminalità sono contenuti nel rapporto Crime in the United States (Uniform Crime Reports for the United States), pubblicato annualmente dall’FBI.[21]
Portata effettiva dei fenomeni criminali e numero oscuro
Nel 1889, Cesare Lombroso scrisse: “Fate la somma di tutti i bottegai che frodano sul prezzo, sul peso; dei professionisti che simulano o dissimulano col cliente (truffa) per proprio vantaggio; dei professori che mentono scientemente; degli impiegati che chiudono un occhio per favoritismo; degli uomini di Governo che abusano del potere e della giustizia: abbiamo una somma di reati tale, che è superiore a quella dei rei ufficiali”.[22] Questa riflessione sintetizza efficacemente le problematiche relative al contrasto tra i fenomeni criminali come rilevati a fini statistici e la loro effettiva portata. A tale proposito, già nel 1881, Enrico Ferri propose la distinzione tra criminalità reale, criminalità apparente e criminalità legale.
- La criminalità reale ricomprende i reati effettivamente posti in essere, siano o meno oggetto di denuncia e, dunque, conosciuti. Molti delitti sfuggono alla cognizione dell’autorità giudiziaria perché facilmente occultabili come le frodi, le ingiurie, gli attentati al pudore o perché non vengono denunciati da chi li subisce o sono, comunque, dissimulati da comportamenti omertosi.
- La criminalità apparente è costituita da reati venuti a conoscenza, in qualunque modo, dell’autorità giudiziaria, quale che sia il loro decorso processuale (esercizio dell’azione penale, dichiarazione di non luogo a procedere, archiviazione).
La differenza tra criminalità reale ed apparente viene definita numero oscuro e costituisce, dunque, l’insieme dei delitti commessi ma non scoperti e non denunciati. La sua incidenza è disomogenea, varia in relazione alle diverse forme di criminalità ed alle possibilità di occultamento delle rispettive condotte delittuose. Tra i fattori maggiormente idonei ad influenzare quello che viene appunto definito indice di occultamento, rientrano:[23]
- le caratteristiche del reato: alcuni delitti passano, per così dire, meno inosservati di altri: è il caso degli omicidi rispetto, ad es., alle truffe;
- l’atteggiamento della vittima: tra le fonti che consentono di acquisire conoscenza di un crimine vi è la denuncia da parte della persona offesa, ma non tutte le vittime rendono noto di aver subito un crimine come, del resto, non tutti i testimoni di condotte delittuose riferiscono ciò cui hanno assistito;
- l’atteggiamento degli organi istituzionali: per motivi contingenti o per precise scelte, è possibile che l’attività di indagine degli organi preposti all’accertamento dei crimini, privilegi determinati settori o gruppi sociali, trascurandone altri. Un elevato indice di occultamento tende a riscontrarsi, ad es., nell’ambito dei cd. delitti dei colletti bianchi;
- tratti peculiari dell’autore del reato: è, inoltre, possibile che elementi come il ceto sociale, la razza, lo stato civile, il livello di professionalità nell’attività criminosa possano incidere sulla scoperta e sulla denuncia di determinati delitti.
Tentativi di sondare la portata del numero oscuro sono stati effettuati ricorrendo in particolare ad indagini di autorilevazione tramite interviste a potenziali autori di reati ed alle loro potenziali vittime. Tali studi hanno evidenziato che “nella nostra società il numero complessivo dei reati è molto alto e che i reati registrati costituiscono una piccola quota di un fenomeno molto più vasto in quanto, mentre quasi tutti gli individui commettono reati, soltanto una piccola parte di essi viene individuata e perseguita”.[24]
La criminalità legale ricomprende, infine, il numero dei reati relativamente ai quali sia stata pronunciata una sentenza di condanna o di assoluzione per motivi non afferenti all’esistenza del reato. Dunque, da tale categoria esulano i reati non giunti a conoscenza dell’autorità e quelli che, pur conosciuti, non sono stati portati a giudizio. Essa non è da ritenersi rappresentativa della criminalità reale né di quella apparente: dall’acquisizione di una notitia criminis non deriva necessariamente un rinvio a giudizio, né da un rinvio a giudizio si approda invariabilmente ad una condanna.
In genere, la percentuale dei delitti di cui rimane sconosciuto l’autore si aggira intorno al 30-40% e varia a seconda della forma e della specie del reato: 1-2% per i delitti contro la famiglia, 70-80% per quelli contro il patrimonio, fino a percentuali ancora più elevate relativamente ai furti semplici ed ai reati informatici.
Note
[1] C. Cioffi, “Metodologia della ricerca in criminologia”, in C. Serra (a cura di), Proposte di criminologia applicata, Giuffré, Milano, 2000, p. 61.
[2] M.M. Correra, P. Martucci, op. cit., p. 41.
[3] Il filosofo della scienza C.S. Peirce (1839-1914) così schematizza il ragionamento induttivo che, partendo dalla constatazione di fatti particolari, giunge a conclusioni di carattere generale: 1) questi fagioli provengono da questo sacco; 2) questi fagioli sono bianchi; 3) tutti i fagioli di questo sacco sono bianchi. (cfr., ad es., A. Manganelli, F. Gabrielli, Investigare. Manuale pratico delle tecniche di indagine, Cedam, Padova, 2007, p. 4). L’induzione non approda ad una certezza ma ad una ipotesi probabile, suscettibile di essere confermata o smentita da successive verifiche.
[4] K.R. Popper in D. Antiseri, “Il segreto della libertà è nel dibattito critico. E non nelle istituzioni”, in Il Giornale, 11 agosto 2016, p. 30.
[5] M.M. Correra, P. Martucci, op. cit., p. 43.
[6] M.M. Correra, P. Martucci, op. cit., p. 44.
[7] I. Merzagora, G. Travaini, Il mestiere del criminologo. Il colloquio e la perizia criminologica, Franco Angeli, Milano, 2915, p. 18.
[8] B. Pope, A.W. Seligman (a cura di), Studies in dyadic communication, Pergamon Press, New York, 1972, in G. Marotta, Criminologia. Storia, teorie, metodi, Cedam, Padova, 2015, p. 53.
[9] M.M. Correra, P. Martucci, op. cit., p. 45.
[10] G. Marotta, op. cit., p. 58.
[11] C. Cioffi, op. cit., p. 86; G.R. Patterson, Coercive family process, Castalia Publishing Company, Eugene, 1982, in K.E. Rudestam, R. Newton, Surviving your dissertation. A comprehensive guide to content and process, California, 1992.
[12] G. Marotta, op. cit., p. 59.
[13] C. Cioffi, op. cit., p. 87; H.S. Becker, Outsiders, Gruppo Abele, Torino, 1987.
[14] C. Cioffi, op. cit., p. 67; R. Boudon, Metodologia della ricerca sociologica, Il Mulino, Bologna, 1970.
[15] T. Bandini, U. Gatti, M.I. Marugo, A. Verde, Criminologia. Il contributo della ricerca alla conoscenza del crimine e della reazione sociale, Giuffré, Milano, 1991, p. 71.
[16] Si veda, in tal senso, il fondamentale M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris, 1975 (tr. it., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976).
[17] Gli studiosi si sono focalizzati, ad es., sulla criminalità femminile nell’Inghilterra del Settecento, sui delitti sessuali nella Venezia del XIV secolo, sul ladro professionale negli Stati uniti, etc. (cfr. T. Bandini, U. Gatti, M.I. Marugo, A. Verde, op. cit., pp. 72-73, nota 65).
[18] M.M. Correra, P. Martucci, op. cit., p. 46.
[19] M.M. Correra, P. Martucci, op. cit., p. 47.
[20] G. Marotta, op. cit., p. 47.
[21] T. Bandini, U. Gatti, M.I. Marugo, A. Verde, op. cit., p. 86.
[22] C. Lombroso, L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla giurisprudenza ed alle discipline carcerarie, Bocca, Torino, 1889, in M.M. Correra, P. Martucci, op. cit., p. 50.
[23] Cfr. C. Cioffi, op. cit., pp. 74-75.
[24] T. Bandini, U. Gatti, M.I. Marugo, A. Verde, op. cit., p. 152.
Tratto da L. Marrone, Appunti di Criminologia. Lo studio del delitto e le sue applicazioni, Bulzoni, Roma, 2017.
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