Rina Fort e la strage di via San Gregorio
“Massacrati in via San Gregorio”
È il 1946. La guerra si è conclusa da poco. Il 4 febbraio si inaugura il congresso che giungerà a deliberare lo scioglimento del Partito d’Azione. Il 5 maggio esordisce il gioco del Totocalcio: si chiama Sisal, è stato inventato dal giornalista Massimo Della Pergola. Il 9 maggio, Vittorio Emanuele III abdica in favore del figlio Umberto I. L’11 maggio riapre la Scala, con un concerto diretto da Arturo Toscanini. Tornano a riempirsi i teatri di varietà, l’attore più acclamato è Totò. 2 giugno, i risultati del referendum: monarchia, 10.719.284 voti; repubblica, 12.717.923. Elezioni per l’Assemblea Costituente: la Dc prende il 20,7% dei voti, il Pci il 18,2%, il Psi il 18,9%, il Partito dell’Uomo qualunque il 5,3%. Il 13 giugno, Umberto I lascia l’Italia per stabilirsi in Portogallo, a Cascais, vicino Lisbona. 1° luglio, Enrico De Nicola viene eletto capo provvisorio dello Stato. Il 7 luglio, Gino Bartali vince il Giro d’Italia. Il 12 luglio nasce un governo di coalizione presieduto da Alcide De Gasperi, cui partecipano anche socialisti e comunisti. Il 30 settembre, pronunciate undici condanne a morte all’esito del processo di Norimberga. Il 26 dicembre, Giorgio Almirante fonda il Movimento sociale italiano, partito che si richiama esplicitamente al fascismo.
Questa è l’Italia della strage di via San Gregorio.
Milano, sabato 30 novembre. Si approssima il Natale. Sono circa le otto di un mattino freddo e umido. Pina Somaschini, commessa del negozio di stoffe e cascami di proprietà di Giuseppe Ricciardi, bussa alla porta dell’abitazione di quest’ultimo, in via San Gregorio n. 40. Lui è fuori Milano da alcuni giorni per motivi di lavoro e la commessa intende farsi consegnare dalla moglie le chiavi del negozio, per poterlo aprire, come tutte le mattine.
Non ottiene risposta. La porta di casa è socchiusa. Pina la spinge e chiama la signora, invano. Si introduce quindi nell’appartamento, in cui regna la penombra. Vede quasi subito, in terra, uno dei figlioletti di Ricciardi. È in una pozza di sangue. Poco distante, riversa sul pavimento, anche la moglie dell’uomo. Pina corre via terrorizzata, raggiunge la strada in cerca di aiuto.
Una volta giunti sul posto, gli uomini della Questura isolano lo stabile e, successivamente, l’intera strada. Nell’appartamento rinvengono altri due piccoli cadaveri, gli altri figli di Ricciardi.
Una strage. Qualcuno ha ucciso, a quanto sembra con una spranga di ferro dagli spigoli accentuati, Franca Pappalardo, quarant’anni, moglie di Giuseppe Ricciardi ed i figli Giovanni, di sette anni, Giuseppina, di cinque, Antonio, di sette mesi. Giornalisti e fotografi hanno preceduto gli investigatori in loco, le edizioni del pomeriggio escono con articoli a quattro colonne e le fotografie delle vittime.
Nuovo Corriere della Sera, primo dicembre 1946: “Massacrati in via San Gregorio una madre coi tre figliuoletti”. Nell’articolo si legge che qualcuno avrebbe sottratto dall’appartamento due assegni e che, sul pavimento, sarebbe stata rivenuta una fotografia dei coniugi Ricciardi il giorno delle nozze, stracciata.
Si ipotizza un delitto passionale. Le indagini vengono affidate al commissario Mario Nardone, definito il “Maigret italiano”, per il suo intuito e la sua sensibilità.
Scena del crimine e prime valutazioni
Dal verbale del primo sopralluogo: piccolo appartamento “con sala da pranzo di circa 3 metri x 3 e mezzo, con divano con due cuscini e una penna stilografica appoggiata; letto matrimoniale in stato di non uso per la notte precedente; al muro immagine di Santa Rosalia, e statuetta della Madonna con lampadina.”
In prossimità delle vittime, abbondanti tracce di sangue, materia cerebrale e vomito. Segno, quest’ultimo, che i colpi mortali sono stati inflitti alle vittime nel corso della digestione. Il che permette di ipotizzare che l’aggressione sia avvenuta la sera precedente, approssimativamente un’ora dopo la cena.
Il portiere dello stabile riferisce di aver chiuso il cancello alle ore 21 in punto ma, da alcuni giorni, la serratura è stata rimossa per riparazioni. Dunque, chiunque avrebbe potuto accedere all’interno dello stabile senza difficoltà.
“Nell’appartamento del delitto non c’è più nessun odore, né di cucina, né di chiuso, né di gas, né di lisciva, nessun odore più di vita”, scrive, sul Corriere d’informazione, Dino Buzzati, che ha accesso al teatro della strage pochi giorni dopo il fatto. “Sono le 16,45 e dalle basse finestre da ammezzato cerca ancora di entrare la luce. […] I mobili hanno quell’ambiguo stile che quindici anni fa veniva chiamato novecento. Mobili e arredi di chi vorrebbe vagamente ripetere ciò che fa la borghesia del Nord […]. Tutt’intorno, dovunque si guardi, cento piccoli segni di un’esistenza familiare rimasta in sospeso. Una cartolina coi saluti da Catania a cui rispondere (e c’è già pronta accanto, non scritta, una cartolina con i ‘grattacieli’ di via Washington), un involto di biancheria da lavare, la pappa del cane non consumata sotto il tavolo della cucina, il riso sparso per terra, un mozzicone di sigaretta Roma. Non un libro in tutta la casa.”
Pochi gli elementi in possesso degli investigatori. L’efferatezza dell’aggressione non sembrerebbe associarsi, a loro avviso, a una semplice rapina. La famiglia Ricciardi si guadagnava a stento da vivere, con un’attività commerciale sempre sull’orlo del fallimento. Se pure Franca Pappalardo avesse sorpreso un rapinatore in casa, questi, reagendo, avrebbe con ogni probabilità risparmiato i figli della donna. “Ma questa volta il massacro conteneva una oscura inverosimiglianza che la cattiveria, la gelosia, l’avidità, la bassezza d’animo non bastavano, neppure assommate, a spiegare”, riflette Buzzati.
La devastante ferocia di cui è pervaso l’iter criminis potrebbe tradire una motivazione più intima, personale, un più diretto e profondo coinvolgimento da parte di chi ha commesso il fatto. Un qualche legame con i Ricciardi? Un elemento acquisito in sede di indagine consentirebbe, del resto, di ipotizzare che la vittima conoscesse l’assassino o gli assassini: la porta di ingresso dell’appartamento risulta priva di segni di effrazione e, in casa, vi sono tre bicchieri con tracce di liquore. La donna ha conversato con gli aggressori, prima che, per qualche ragione, la violenza deflagrasse incontenibile? Nella mano della Pappalardo, che deve aver lottato strenuamente prima di soccombere, viene rinvenuta una ciocca di capelli lunghi, neri, di certo femminili.
Inizia l’indagine
Da qualche giorno, Giuseppe Ricciardi è fuori città. Si trova a Prato, impegnato nell’acquisto di stoffe per rifornire il proprio negozio. Gli investigatori iniziano con l’acquisire informazioni su di lui. Originario di Catania, inizia l’attività durante la guerra, fuggito dalla sua città occupata dagli americani. Giunto a Milano, si stabilisce in via San Gregorio, in una zona popolare sorta con l’abbattimento del Lazzaretto. Nel quartiere abbondano piccole botteghe, gestite quasi interamente da immigrati provenienti dall’Italia meridionale. All’arrivo, Ricciardi è solo, Franca lo raggiunge poco dopo ma, per ragioni mai chiarite, torna ben presto a Catania.
Lui, Ricciardi, si accompagna con una certa disinvoltura ad altre donne e finisce con l’instaurare una relazione con una sua commessa. I compaesani dell’uomo, che vivono e lavorano nel quartiere, si premurano di informarne la moglie. Lei, con i figli, fa ritorno nell’appartamento di via San Gregorio, il marito pone fine alla relazione con la commessa e la licenzia. La vita della coppia torna alla normalità. Nasce il terzo figlio, un quarto è in arrivo.
Rina Fort
Chi è dunque l’ex amante di Ricciardi? Si chiama Caterina Fort, detta Rina. Originaria di Santa Lucia di Budoia, in Friuli, dov’è nata il 28 giugno 1915, ha un’esistenza travagliata. Il padre perde la vita durante un’escursione in montagna, tentando di aiutarla a superare un tratto di terreno pericoloso. Il suo fidanzato muore di tubercolosi poco prima del matrimonio. Lei si scopre affetta da sterilità. A 22 anni sposa un compaesano, Giuseppe Benedet, che il giorno delle nozze palesa segni di squilibrio e, in breve, verrà ricoverato in manicomio. Ottiene la separazione, riprende il cognome da nubile e si trasferisce a Milano presso la sorella.
La polizia non ha difficoltà a rintracciarla. Abita in via Mauro Macchi n. 89. Lavora in una pasticceria di via Settala n. 43. Gli investigatori la avvicinano mentre si trova in un bar di fronte al negozio, la caricano su una jeep della Celere e la conducono in Questura.
E qui, poche ore dopo la scoperta del delitto, nel pomeriggio del 30 novembre, la donna viene interrogata la prima volta. Ammette senza difficoltà di aver lavorato per Ricciardi e sostiene di non frequentarlo più da tempo. Si dice all’oscuro dell’omicidio. Il 2 dicembre viene condotta sulla scena del delitto, il che sembra non scuotere la sua indifferenza. Viene in seguito sottoposta a lunghi, estenuanti interrogatori. Racconta di essere stata l’amante del Ricciardi, di aver convissuto con lui dal settembre 1945, fino all’arrivo della moglie di lui. È sospettata della strage e, ovviamente, chi indaga si chiede se abbia agito da sola o meno.
Alla fine, la Fort confessa. Confessa di aver partecipato al delitto, ma come complice. Suo compito sarebbe stato solo quello di accompagnare l’assassino fino a via San Gregorio e di convincere la signora Franca ad aprire la porta. A suo dire, l’omicida sarebbe stato un non meglio identificato cugino di Ricciardi. Secondo questo scenario, il piano prevedeva originariamente di inscenare una rapina e sarebbe stato organizzato dallo stesso Ricciardi per indurre la moglie a fare ritorno a Catania o per persuadere certi creditori particolarmente insistenti che lui avesse perso tutto e che dunque non potesse onorare il suo debito.
La polizia sembra credere invece che la donna abbia agito da sola. Nel dubbio, viene comunque arrestato anche Ricciardi e si effettuano approfonditi accertamenti sulle sue condizioni economiche ed i suoi spostamenti.
Nuovo Corriere della Sera, 4 dicembre: “Caterina Fort agì da sola ma tergiversa e si contraddice.”
Poi, quello che sembrerebbe uno sviluppo conclusivo.
Nuovo Corriere della Sera, 5 dicembre: “Li ho ammazzati tutti io! Caterina Fort ha firmato il verbale di confessione.” “La Questura comunica: Le indagini relative al delitto di via San Gregorio hanno finora accertato in modo irrefutabile la responsabilità della Rina Fort, a cui carico, oltre alle ripetute e dettagliate, seppur finora non complete confessioni, stanno risultanze di fatti inconfutabili. Tali indagini proseguono per l’accertamento di altre responsabilità, finora non sufficientemente chiarite.” “Sì, li ho ammazzati tutti io! – Ha gridato finalmente la belva, dopo oltre 100 ore di interrogatori e confronti. […] Le sue deposizioni sono state messe a verbale, e dopo alcuni minuti di esitazione, ha firmato. […] Ma non ha ritrattato i particolari in precedenza forniti per far credere alla presenza di un uomo e poi di un secondo, sopraggiunto all’ultimo momento.”
Il movente sarebbe da ricercarsi nella gelosia conseguente alla fine della relazione con Ricciardi.
La Fort in seguito riferisce al suo avvocato che la confessione le sarebbe stata estorta con la violenza. Lamenta di essere stata umiliata, minacciata, schiaffeggiata e colpita a manganellate. Fino ad ammettere di aver ucciso anche i bambini, circostanza che in seguito e fino alla fine tornerà recisamente a negare.
Un complice?
La Fort continua a menzionare il complice che l’avrebbe accompagnata dalla Pappalardo. Un parente o forse un amico di Ricciardi. Comunque, a suo dire, un uomo di norme Carmelo, che avrebbe avuto il compito di inscenare una rapina. Forse, la situazione era sfuggita di mano ai rapinatori improvvisati, forse la moglie di Ricciardi aveva avuto una reazione imprevista, forse gli aggressori non erano riusciti a controllare la violenza della propria reazione.
Ricciardi, come c’è da aspettarsi, nega recisamente il suo coinvolgimento nel delitto. Sostiene che la donna, a suo dire malata di mente e vittima di sevizie da parte del primo marito nonché di ricatti sessuali da parte di uomini incontrati dopo la separazione, abbia inteso vendicarsi perché lui aveva posto fine alla loro relazione.
Le indagini proseguono, “i ‘Carmeli’ fermati e interrogati si contano a decine” : la polizia individua, tra gli amici ed i parenti di Ricciardi, cinque possibili soggetti che potrebbero aver accompagnato la Fort sulla scena del crimine.
I sospetti si focalizzano, in particolare, Carmelo Zappulla, all’anagrafe Giuseppe. Le circostanze della sua individuazione meritano di essere brevemente ripercorse. Si effettua un riconoscimento tramite confronto, alla Fort viene mostrato il sospettato insieme ad altri uomini, tra cui due poliziotti. E la donna afferma di riconoscere il proprio presunto complice proprio in uno dei poliziotti. Informata dell’esito del riconoscimento, la donna chiede di poterlo ripetere e, nella circostanza, indica appunto Zappulla, prontamente tratto in arresto.
Martedì 10 dicembre il magistrato autorizza i funerali delle quattro vittime, che si celebrano sabato 14, alle due del pomeriggio, nella chiesa di San Gioachino. Presenti il sindaco e altre autorità. Dopo la cerimonia, le bare vengono trasportate alla Stazione Centrale e poste su un treno diretto a Catania, dove sono inumate.
Un anno e mezzo dopo, Ricciardi e Zappulla vengono scarcerati perché risultati estranei al delitto. Zappulla muore poco tempo dopo. Viene processata solo Rina Fort.
In aula
Martedì 10 gennaio 1950. Dinanzi alla Corte d’Assise inizia il processo nei confronti Caterina Fort, accusata di strage. È difesa dall’avvocato Antonio Marsico. L’imputata presenzia a tutte le udienze, sfoggiando una vistosa sciarpa gialla, che le vale il soprannome di “Belva con la sciarpa color canarino”.
Buzzati sul Nuovo Corriere della Sera: “Dalla portina, alle 9,30, una donna entra nella gabbia. Ha un paltò nero, un poco infagottato. Una sciarpa di lana giallo chiaro, gettata sulla spalla, le copre mezza faccia. Tiene la testa china e si nasconde gli occhi con le mani, nere anch’esse per i guanti di filo. Pure i capelli, spartiti lateralmente con cura e raccolti sulla nuca, sono neri. Sembra una di quelle penitenti che si vedono inginocchiate nell’angolo più buio della chiesa, alle cinque del mattino. Invece è Rina Fort, la ‘belva’.”
“Certo il mostro di via San Gregorio non ha un volto da mostro. Niente di duro, o crudele, o singolare, nei lineamenti. Non si direbbe neanche che la donna sia in prigione da tre anni. C’è anzi una strana quiete in quella faccia […].”
Prima problematica processuale affrontata: accettare o meno la costituzione di parte civile di Ricciardi, intenzionato a ottenere un risarcimento per la perdita dei tre figli. L’istruttoria lo ha prosciolto, dunque la sua richiesta viene accettata. Il pubblico che segue il processo protesta, lo ritiene un marito e un padre indegno.
Questo il resoconto che l’imputata fornisce del delitto. La sera del 29 novembre si era accordata con Ricciardi per inscenare la rapina in casa di quest’ultimo. Alle 18,30, aveva concluso il turno di lavoro nella pasticceria presso cui aveva trovato un impiego dopo il licenziamento da parte dello stesso ex amante. Si era quindi incontrata con Carmelo in via Felice Casati. Aveva accettato da lui una sigaretta, che la Fort sostiene essere stata drogata perché, fumandola, era stata assalita da un senso di stordimento.
Obnubilata, aveva quindi seguito Carmelo in via San Gregorio 40. Afferma di non aver conservato memoria di quanto accaduto in casa, se non sotto forma di immagini sfuggenti e indefinite. Ricordava solo di aver colpito Franca Pappalardo con tutte le sue forze, poi, intorno a lei, urla, colpi, rumori indistinti. Forse nella stanza vi era anche un altro uomo, di cui comunque l’imputata non è in grado di fornire una descrizione. Riferisce di essersi trovata, a un certo punto, in terra, semisvenuta. Carmelo avrebbe tentato di rianimarla dandole qualcosa da bere. Si erano quindi allontanati dall’abitazione. Ricorda di aver sceso le scale e di essersi nascosta per un tempo non quantificabile nella cantina dello stabile. Poi, da sola, aveva fatto ritorno a casa. Ed aveva cenato con due uova al tegamino.
Il difensore della donna, l’avvocato Marsico, cerca di fornire adeguato supporto probatorio a quanto riferito dalla sua assistita, di accreditare la tesi che, sulla scena del crimine, Rina Fort non era sola. A tale scopo, pone in evidenza un dato che l’accusa ha lasciato intenzionalmente in ombra: nel corso del sopralluogo effettuato sul locus commissi delicti, la polizia ha rinvenuto una penna stilografica. Che non appartiene né alla vittima, né a suo marito, né a Rina Fort. Dunque, considera Marisco, la sera del delitto, nell’appartamento di via San Gregorio, doveva necessariamente trovarsi anche qualcun altro che, nella concitazione, aveva smarrito la stilografica.
Replica dell’accusa: la penna potrebbe appartenere ai tanti, troppi, giornalisti e curiosi che si sono aggirati per la scena del crimine prima che quest’ultima venisse isolata e si procedesse alle attività di sopralluogo.
La difesa si concentra poi su una lettera anonima indirizzata alla Questura di Milano e datata 30 novembre 1946, il giorno successivo al delitto, il cui testo viene così sintetizzato sull’Europeo da Tommaso Besozzi: “Da fonte sicura siamo in grado di precisare che ad uccidere Franca Pappalardo ed i suoi tre bambini è stata Caterina Fort e con lei due loschi figuri della stazione centrale. Il delitto è stato concertato otto giorni prima. Anche lui [il marito della vittima] ne era al corrente. Bastonateli bene che parleranno. Noi non ci firmiamo perché abbiamo paura di rappresaglie.”
Tra i testimoni, un conoscente dell’imputata, Giacomo Teghini, che lei sostiene di aver incontrato la sera, prima del delitto, mentre si trovava in compagnia di Carmelo. Il teste, ventenne, conferma in effetti di aver visto la Fort, ma senza il misterioso accompagnatore. La difesa avanza dubbi sull’attendibilità del giovane, avanzando il sospetto che questi abbia concordato la testimonianza con suo padre, per evitare di essere coinvolto nella vicenda.
Nel corso del processo viene disposta anche una perizia psichiatrica dell’imputata, affidata ai professori Amati e Saporito ed effettuata presso il manicomio criminale di Aversa. Secondo i periti, la “donna di via San Gregorio”, come la definiscono, rivelerebbe di certo anomalie, con tendenza all’accentuazione. Le traversie della sua infanzia e prima giovinezza sembrano aver influito sullo sviluppo della sua indole. A ciò si aggiungano le gravi frustrazioni legate alla sua vita sentimentale. Tutto questo, ad avviso degli esperti, non varrebbe però a determinare nella donna una vera e propria aberrazione mentale. La Fort, insomma, è sempre stata presente a se stessa e padrona delle proprie azioni. Conclusioni: “Se entrò nella casa di via San Gregorio e uccise fu perché aveva deciso di uccidere e voleva uccidere.”
Per il consulente della difesa, il professor Garavaglia, al momento del delitto la donna aveva agito invece in uno stato di aberrazione mentale, in preda a un momentaneo raptus, unica prospettiva interpretativa che, a suo dire, consentirebbe di spiegare l’uccisione dei bambini presenti in loco, in particolare quello di soli sette mesi. Un’uccisione, scrive il consulente di parte, che “non aveva neppure l’inumana giustificazione della ricerca della impunità” . Per Garavaglia, almeno al momento del delitto, la Fort era completamente irresponsabile.
Condanna
Al termine del dibattimento, come prescritto, le viene lasciata l’ultima parola. Rina Fort, amaramente, considera: “Potrei dire che non ho paura della sentenza. Faranno i giudici. Mi diano cinque anni o l’ergastolo, a che può servire? Ormai sono la Fort.”
Per la Corte d’Assise, Canterina Fort è colpevole di omicidio volontario nei confronti di Franca Pappalardo e dei piccoli Giovanni, Giuseppina, Antonio Ricciardi; di simulazione di reato per quanto attiene alla prospettata rapina da mettere in scena in via San Gregorio; di calunnia nei confronti di Giuseppe (Carmelo) Zappulla. La donna viene quindi condannata all’ergastolo con isolamento diurno per sei mesi, interdizione perpetua dai pubblici uffici e interdizione legale. Risarcimento danni da valutare in separato giudizio civile.
Dopo la condanna, un breve colloquio con Milena Milani, redattrice della rivista Tempo. “Io ero diventata molto triste”, ricorda la giornalista, “ogni tanto osservandola volevo convincermi che era stata lei ad ammazzare quattro persone, una madre e tre bambini. Ma era impossibile, non ci riuscivo. Quasi avesse indovinato il mio pensiero, lei disse: ‘Lei crede che io sia così tranquilla se avessi sulla coscienza quei bambini?’ Effettivamente è tranquilla, in pace con se stessa, il volto riposato non aveva traccia di sofferenza, e gli occhi mi fissavano calmi e fermi, la bocca sorrideva, un dente d’oro spiccava a destra, in fondo. ‘Volevo bene ai bambini’, riprese, ‘quando stava per nascere Antoniuccio io preparai per lui parecchi capi di vestiario, e dissi a Pippo [Ricciardi]: non dirlo a tua moglie che sono io, non voglio farle dispiacere; ma lui disse: lo deve sapere che li hai fatti tu; e anche la signora Franca lo seppe e diceva sempre che Rina sa cucire molto bene.’”
Poi, la Fort fa riferimento alla situazione familiare di Ricciardi, al rapporto con la moglie: “Quando seppi che anche lui era sposato, ormai gli volevo bene, non c’era niente da fare. Lui propose a sua moglie la separazione legale tanto per cominciare, ma ebbe contro tutta la famiglia, fu la volta che lui stava per strozzare la signora Franca. Lo chieda al fratello della signora se non è vero, lo chieda al vecchio Pappalardo, lo sanno benissimo, lo sanno tutti a Catania.”
E, a proposito delle indagini sulla strage, “non sono state fatte come dovevano essere fatte”, afferma la donna, “le impronte non furono rilevate, i testimoni non furono sentiti, non hanno ascoltato Teghini lo studente siciliano che vidi la sera del delitto, quando ero con Carmelo.”
Per Rina Fort si aprono le porte di San Vittore. Da qui, poco tempo dopo, viene trasferita nel carcere di Perugia.
Il 9 luglio 1951 la Corte di cassazione stabilisce che il processo deve celebrarsi nuovamente, questa volta a Bologna. Prima udienza, 18 marzo 1952. “Per la maggior parte del pubblico, la sorpresa è stata la voce di Caterina Fort”, scrive Camilla Cederna sull’Europeo, “una voce da bambina educata dalle suore, garbata e sottile […]. La voce di una donna gentile che si scusa per aver commesso una lievissima maleducazione.”
Si reitera la denuncia del trattamento disumano cui la donna sarebbe stata sottoposta durante le indagini per indurla a confessare omicidi non commessi. Di nuovo interrogati i testimoni. Sentito ancora Giacomo Teghini, il giovane che l’aveva incontrata la sera della strage, l’unico teste che forse potrebbe scagionarla. E che, di nuovo in aula, ribadisce che, in quella circostanza, Rina era da sola. “Ero accompagnata! E tu lo sai!”, urla invano l’imputata.
Giuseppe Ricciardi, chiamato a sua volta (“Fotografatemi all’americana”, chiede ai reporter presenti in aula), riconferma la sua versione dei fatti: il giorno del delitto si trovava a Prato per affari e certo non aveva architettato una finta rapina a casa sua né pianificato l’omicidio di sua moglie e dei suoi figli.
9 aprile 1952: confermata la condanna all’ergastolo. Caterina fa ritorno nella casa di reclusione di Perugia, dalla quale scrive spesso al suo avvocato, Gaetano Geraci.
Lettera del 24 agosto 1952: “Se penso al risultato dell’appello, mi convinco sempre più che è stata per me una disfatta completa e imprevista. Quando il presidente d’assise, con la voce rotta dall’emozione, lesse la sentenza il 9 aprile, sentii che il mondo intorno a me era crollato. Come per tutti i colpi mortali, non ne avvertii il dolore; provai un rilassamento in tutto l’essere: la volontà di lottare che mi aveva sostenuta fino a quel momento si spezzò. Fui fermamente decisa a non ricorrere in cassazione: tutto ormai mi sembrò inutile. Più tardi, con il ragionamento, subentrò in me il senso del ridicolo. Risi di me per essermi tanto illusa, per aver creduto che il teste Teghini avrebbe detto la verità, per aver sperato che Ricciardi, di fronte a me, non avrebbe avuto il coraggio di smentirmi in quel modo. Noi recluse, a poco a poco, finiamo col perdere la visione reale del mondo dei vivi, dove la lotta per la vita esige egoismo e falsità. Adesso, almeno, non ho più illusioni, anche se mi sono decisa a ricorrere in cassazione. Non è la quantità della pena che mi spaventa: c’è una parte del delitto che non ho commessa e che non voglio.”
Tre bicchieri
25 novembre 1953, l’ergastolo viene nuovamente confermato in Cassazione. Rimasta a Perugia fino al 1960, la Fort viene in seguito traferita a Trani: il clima più mite giova alla sua salute compromessa. Verrà poi spostata a Firenze.
Il 12 febbraio 1975 ottiene, per buona condotta, la grazia dal Presidente della Repubblica. Ricciardi è morto alcuni mesi prima.
Lei, Caterina Fort, viene a mancare il 2 marzo 1988, stroncata da un infarto. Ha costantemente ribadito di non aver ucciso i tre figli de suo ex amante. Permangono dubbi sulla piena sincerità del teste che ha più volte negato di averla vista, la notte del delitto, in compagnia del misterioso “Carmelo”.
E, in termini di dinamica dell’iter criminis così come desumibile dalle risultanze dell’esame della scena del crimine, resta da spiegare la presenza, in loco, di tre bicchieri con tracce di liquore.
Riferimenti
T. Besozzi, “La sterminatrice scaltra”, L’Europeo, 3/1950.
D. Buzzati, “La belva in gabbia”, Nuovo Corriere della Sera, 11 gennaio 1950.
D. Buzzati, “Sono entrato nella casa della strage”, Corriere d’informazione, 6-7 dicembre 1946.
D. Buzzati, “Un’ombra gira tra noi”, Nuovo Corriere della sera, 3 dicembre 1946.
L. Cecchini, Dieci grandi processi di amore e morte, De Vecchi, Milano, 1965, https://www.misteriditalia.it/altri-misteri/san%20gregorio/IldelittodiviaSanGregorio.pdf
C. Cederna, L’Europeo, 5 aprile 1952.
M. Colombo, Rina Fort, la belva di via San Gregorio, https://www.storiadimilano.it/Personaggi/cronaca_nera/rina_fort.htm
M. Milani, “L’ultimo colloquio”, Tempo, 28 gennaio 1950.
https://www.sherlockmagazine.it/9670/real-crime-rina-fort-e-la-strage-di-via-san-gregorio
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