Il terrorismo. Definizioni, motivazioni e profili comportamentali

1. Concetti introduttivi

La parola terrorismo compare, per la prima volta, nel 1798, in un supplemento del Dictionnaire dell’Académie française, con riferimento agli abusi del potere rivoluzionario. Lo stesso anno, il termine ricorre anche in uno scritto di Immanuel Kant, a indicare una concezione pessimistica dell’umanità.
Nell’accezione attuale, il terrorismo, a fronte della drammaticità delle sue manifestazioni, rimane un fenomeno multiforme e, sotto molti aspetti, sfuggente. Definirlo in modo univoco può risultare arduo. Secondo Pisano (1997), il terrorismo è una forma di violenza criminale a fini politici, esercitata attraverso strutture e modalità clandestine. L’Autore pone in evidenza tre suoi peculiari aspetti, idonei a distinguerlo da altri fenomeni politici e criminologici:

• violenza criminale: differenzia il terrorismo dagli organi istituzionali che pongono in essere un uso legittimo della forza;
• fine politico: elemento idoneo a distinguere il terrorismo dalla criminalità comune e organizzata, le cui finalità risultano essenzialmente di natura economica.
• clandestinità: differenzia il terrorismo dall’ordinaria violenza politica, che tende a palesarsi senza alcun sotterfugio.

Pisano distingue, inoltre, il fenomeno nelle seguenti categorie:

• terrorismo-stadio: accezione rientrante nell’ambito di una conflittualità non convenzionale, finalizzata a determinare sconvolgimenti radicali-rivoluzionari. Abitualmente, si registra a livello interno, negli Stati in cui nasce l’organizzazione terroristica di riferimento;
• terrorismo-tattica: strategia o atto dimostrativo cui si ricorre nel corso della conflittualità non convenzionale, eventualmente a livello internazionale. A ciò provvedono organizzazioni connesse tra loro in una vera e propria rete, appunto, internazionale.

In tema di profili fenomenologici, Bonanate (1994) individua le seguenti, possibili configurazioni del terrorismo:

• terrorismo come forma di lotta di indipendenza;
• terrorismo contro lo Stato (con tratti che valgono a differenziarlo dall’anarchismo, v. infra);
• terrorismo contro l’ordine internazionale;
• terrorismo come spinta alla destabilizzazione della società moderna.

A questi si aggiungano le forme di “terrore” esercitate, in modo più o meno diretto e palese, da certi Stati (ad es., il cd. “terrore stalinista”, etc.). Secondo l’Autore, il terrorista si distingue dall’anarchico in quanto, a differenza di quest’ultimo che opera per giungere al completo abbattimento dell’assetto istituzionale, sostiene di voler instaurare un nuovo ordine socio-politico, a suo dire più giusto di quello contro cui indirizza le proprie azioni destabilizzanti.

Bonanate propone, poi, l’ulteriore distinzione tra:

• azioni terroristiche di movimenti organizzati, dotati di una strategia di lungo periodo, che considerano il singolo risultato ottenuto come una tappa nella realizzazione del proprio disegno di conquista del potere;
• manifestazioni estemporanee e improvvise, tese a imitare la logica terroristica, a sfruttarne i tratti esteriori, pur non rivelandone, per così dire, la lucidità.

La Decisione Quadro del 13 giugno 2002, adottata dal Consiglio d’Europa, recependo alcuni spunti proposti dalle Nazioni Unite, riconduce alla fattispecie degli atti terroristici condotte criminali quali: “attentanti contro la vita, sequestro di persona e cattura di ostaggi; distruzioni massicce di strutture governative e pubbliche, di sistemi di trasporto, infrastrutture […], luoghi pubblici o di proprietà private, che possono mettere a repentaglio vite umane o causare perdite economiche considerevoli; sequestro di aeromobili o navi o mezzi di trasporto collettivo di passeggeri o di trasporto merci; fabbricazione, detenzione, acquisto, trasporto, fornitura o uso di armi da fuoco, esplosivi, armi atomiche, biologiche o chimiche.”
Dal documento emerge che lo scopo precipuo del terrorismo è quello di danneggiare gravemente un Paese o una organizzazione internazionale; di intimidire una popolazione; di indurre illegittimamente i poteri pubblici a compiere un determinato atto, con il palese intendimento di “destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politiche, costituzionali, economiche o sociali fondamentali di un paese o di un’organizzazione.”

Gli aspetti caratterizzanti del terrorismo, secondo tale formulazione, sembrerebbero dunque:
• il sistematico impiego di violenza organizzata ai danni di persone non combattenti;
• il connotato ideologico-religioso della condotta;
• l’intento programmatico di innescare e diffondere un senso di paura, di terrore appunto, presso i consociati.

Da qui, la definizione del fenomeno proposta da Travaini (2008): il terrorismo come metodo di lotta politica/religiosa/ideologica che si fonda su un sistematico ricorso alla violenza, che si riversa non solo su organismi e strutture militari, ma sull’intera collettività, creando un diffuso senso di insicurezza sociale.
Ulteriore definizione del fenomeno, tra le numerosissime coniate, è quella dell’F.B.I., secondo cui il terrorismo consiste nell’uso illegale della forza e della violenza contro persone o proprietà per intimidire o coercizzare un governo, la popolazione civile o una parte di essi per raggiungere obiettivi sociali o politici.
Secondo De Luca (2013), attualmente sembrano prevalere forme di terrorismo espressione di una contrapposizione tra culture e religioni diverse. Uno dei fattori che connotano in termini peculiari gli sviluppi del fenomeno è costituito dall’attuale, estrema facilità di reperimento di armi di distruzione di massa, non solo alla portata di gruppi organizzati, ma anche di singoli individui (Laquer, 1999).

2. Fanatismo e fondamentalismo

Hole (1995) definisce il fanatismo come una convinzione personale condizionata dalla struttura della personalità avente per oggetto contenuti e valori ridotti, caratterizzata da un alto grado di identificazione, che viene mantenuto o perseguito con fortissima intensità, persistenza e coerenza e che non è capace di dialogare e scendere a compromessi con altri sistemi e altri uomini, i quali possono essere combattuti come nemici esterni, anche con l’impiego di tutti i mezzi e in conformità alla propria coscienza.

Può assumere i seguenti connotati:
• fanatismo essenziale, proprio di soggetti tesi a fissarsi ossessivamente su un’idea. Atteggiamento rigido e non incline al compromesso. Quattro essenziali bisogni psichici sottesi:
– autoconferma;
– validità assoluta dell’idea;
– imposizione aggressiva dell’idea;
-coerenza;
• fanatismo indotto, proprio di soggetti dalla struttura psichica normale che, affascinati dal carisma di un leader, decidono di abbracciarne senza riserve la dottrina. Si osserva il fenomeno che Freud definisce regressione dell’attività psichica a uno stato anteriore. Riscontrabili anche: l’effetto di amplificazione del gruppo (Battegay, 1971), relativo alle emozioni condivise; il narcisismo di gruppo (Fromm, 1977).
I due ambiti in cui il fanatismo tende maggiormente a svilupparsi – secondo Hole – sono quello politico e quello religioso.

Tale fenomeno costituisce la premessa del fondamentalismo, definito dall’Autore come un atteggiamento convinto nei confronti di un preesistente valore fondamentale, di un punto di vista fondamentale, di una regola formulata o di un documento storico, che da parte loro non possono più essere messi in discussione.

L’adozione di una prospettiva fondamentalista sembrerebbe scaturire dalle seguenti esigenze psicologiche:
• sicurezza: esigenza di eliminare ogni fonte di incertezza, che possa ingenerare dubbi sul percorso intrapreso;
• ancoramento: radicamento esistenziale da cui trarre sicurezza e sostegno;
• autorità: necessità di sottomettersi a contenuti imposti da una persona o da un testo di indiscutibile autorevolezza;
• identificazione: pieno accordo su ogni idea e interpretazione espressa dal gruppo di appartenenza;
• perfezione: aspirazione a un comportamento pienamente conforme a certi modelli, senza necessità di ulteriori miglioramenti;
• semplicità: ridurre problematiche complesse e multiformi a enunciazioni chiare, semplici, prive di contraddizioni.

3. Il terrorismo suicida

La strategia del terrorismo è suscettibile di assumere diverse forme, tra cui quella, appunto, degli attacchi suicidi.
Per attacco suicida si intende un atto di violenza politica organizzata in cui l’esecutore della violenza sacrifica la propria vita in maniera intenzionale e premeditata (Marone, 2009).
Gli attacchi suicidi combinano l’intento di uccidere e quello di morire nel medesimo atto: l’obiettivo risulta evidentemente essere quello di “morire per uccidere”.

Tale forma di violenza politica estrema necessita in genere della partecipazione attiva di tre soggetti:
• un attentatore che decide in modo premeditato di offrire la propria vita alla luce di determinate motivazioni, politiche o di altro genere;
• un’organizzazione che si serve di tale sacrificio per conseguire specifiche finalità politiche;
• una comunità di sostegno che riconosce e legittima tale pratica, in genere ascrivendola alla categoria del martirio.

Gli attacchi suicidi sono un fenomeno affermatosi di recente, a partire dagli anni Ottanta del Novecento nel corso della guerra civile libanese.
Alcuni antecedenti storici:
• i sicari ebrei nella Giudea sotto occupazione romana del I secolo d. C.;
• la setta radicale ismailita degli Assassini, attiva in Persia e in Siria dal XI al XIII secolo (Rapoport, 1984);
• alcune comunità musulmane dell’Asia sud-orientale contro le potenze coloniali europee (Dale, 1988).
• I piloti giapponesi alla guida di aerei carichi di esplosivo, lanciati contro le navi alleate durante la seconda guerra mondiale (kamikaze, termine ormai impiegato per designare, in generale, i terroristi suicidi).

Negli ultimi decenni il fenomeno si è evoluto in due modelli (Moghadam, 2006):
• i casi libanese, tamil, palestinese, curdo, sikh, kashmiro, ceceno e iracheno (solo in riferimento ai gruppi nazionalistici), rivelano tratti essenzialmente locali, impegnati nella liberazione di un territorio specifico da una presunta occupazione straniera; obiettivi circoscritti e ascrivibili alla cd. “ondata anti-coloniale”, la terza ondata del “terrorismo moderno” (Rapoport, 2004).
• i casi della rete di al-Qaeda e dei gruppi jihadisti, secondo un nuovo modello transnazionale, dai fini più ampi, con significativi legami con la sfera religiosa (“quarta ondata terroristica”, appunto religiosa, secondo il citato Rapoport).

4. Profilo personologico del terrorista suicida

4.1. Profilo psicologico

“La straordinaria caratteristica comune dei terroristi è la loro normalità” (Crenshaw, 1981).
La ricerca ha posto in evidenza che abitualmente i terroristi non risultano affetti da malattie o disordini mentali significativi (Victoroff, 2005). Dato, questo, riscontrabile anche con specifico riferimento agli attentatori suicidi: la maggior parte di chi aspira al martirio sembra non rivelare disturbi psicologici o tendenze suicide, tanto nel modello locale che in quello transnazionale.
Un ulteriore studio avrebbe accertato l’assenza, in quattrocento membri della rete terroristica di al-Qa’ida, di tratti antisociali, malattie mentali, pregressi traumi sociali o disturbi comportamentali (Sageman, 2004).
Del resto, le organizzazioni terroristiche hanno evidentemente interesse a reclutare soggetti che appaiano normali e risultino affidabili per l’espletamento della missione loro affidata (Hudson in Ricolfi, 2006).

La maggioranza degli studiosi ritiene che non esistano profili psicologici tipici dell’attentatore suicida (v., ad es., Merari, 1990).
Altri, pur ponendo in evidenza che la scarsità di biografie individuali di tali soggetti rende estremamente arduo effettuare valutazioni conclusive, ritengono di poter individuare in essi tratti psicologici ricorrenti, tra cui una personalità autoritaria e una accentuata propensione al rischio (Lester, Yang e Lindsay, 2004).

Bandura (1990) ha preso in esame i meccanismi di difesa attraverso cui i terroristi – quelli suicidi, in particolare – raggiungono uno stato di disimpegno morale che permette loro di pianificare e attuare le azioni più violente e distruttive:
• giustificazione morale: combattere il Male con ogni mezzo e risorsa, per difendere i valori della propria cultura e del loro modus vivendi;
• spostamento della responsabilità: la responsabilità delle azioni poste in essere non grava su di loro ma sul nemico che le ha rese indispensabili;
• diffusione della responsabilità: il singolo non si sente il solo responsabile dell’azione, deliberata, pianificata e attuata dal gruppo terroristico di cui egli è parte;
• deumanizzazione: le vittime sono private della loro connotazione umana, percepite nel loro insieme semplicemente come il “Nemico” da abbattere.

4.2. Caratteri socio-demografici ed economici

• Tanto in ambito locale quanto in quello transnazionale, si registra una netta prevalenza di individui di età compresa tra i diciotto e i trent’anni.
• In generale, la maggioranza degli attentatori suicidi è di genere maschile. In molti paesi islamici, il martirio femminile risulta essere un fenomeno recente, rilevante seppure ancora minoritario.
• Al contrario, in alcuni ambiti locali di ispirazione laica, come in Turchia (PKK) e in Sri Lanka (LTTE), e anche in contesti in cui la violenza può associarsi a una prospettiva religiosa, come in Cecenia, il contributo delle donne è molto rilevante (ad es., le “vedove nere” cecene).

Per quanto riguarda lo status socio-economico, più di una ricerca ha accertato che, contrariamente a certi diffusi stereotipi, numerosi terroristi suicidi appartengono alle classi medie, vantano un elevato livello di istruzione e condizioni economiche del tutto soddisfacenti (Weinberg, Pedahzur, Canetti-Nisim, 2003).
I profili sociali degli aspiranti attentatori suicidi sembrano, comunque, essere molteplici, suscettibili di subire significative modificazioni negli anni, anche in considerazione delle specifiche esigenze di addestramento di volta in volta prospettate dalle organizzazioni di riferimento.
Alcuni studiosi hanno constatato che i profili degli attentatori palestinesi si sono, ad es., sensibilmente evoluti, nel corso del tempo, per fronteggiare le misure di prevenzione di volta in volta approntate dagli israeliani (Hoffman, 2003).

4.3. Profili motivazionali

Risultano individuabili almeno secondo tre prospettive:
• Il conformarsi a valori sposati in modo incondizionato. I principali risultano essere, ovviamente, il patriottismo e la fede religiosa. Nei casi in cui prevale una causa religiosa, è possibile, come osserva Elster (2006), che per molti aspiranti suicidi l’aldilà finisca talvolta per ridursi a una sorta di bene di consumo strumentale: le aspettative possono cioè assumere i tratti di una forma di consolazione o di “bonus” piuttosto che una autentica motivazione.
• Inclinazioni affettive. Anch’esse possono rivestire un ruolo significativo. Studiosi e ricercatori pongono spesso in evidenza sentimenti di vendetta, di umiliazione, di frustrazione, di vergogna (Juergensmeyer, 2003; Reuter, 2006). In ambito locale, le motivazioni di molti attacchi suicidi potrebbero interpretarsi mediante il concetto di suicidio altruistico facoltativo di Emile Durkheim (Strenski, 2003):
– esso ricorre quando “l’io non si appartiene ma si confonde con cosa diversa da se e […] il polo della condotta viene a trovarsi al di fuori, cioè in un gruppo di cui l’individuo è parte” (altruismo);
– lo stesso risulta altresì non espressamente imposto dal contesto sociale, anche se accettato e, talvolta, incoraggiato (facoltatività).
• Interessi personali. Secondo Tosini (2007), in alcuni casi, gli attentatori suicidi si attengono a una sorta di razionalità strumentale – per quanto postuma – di carattere altruistico o egoistico, a seconda che il beneficiario dell’azione sia un’altra persona oppure l’attentatore stesso. Non si tratterebbe di motivazioni fondamentali, ma comunque idonee a determinare un consolidamento dell’intento suicida (Pedahzur 2005). In particolare:
– partecipare a un attentato suicida garantisce alla famiglia del terrorista-martire un consistente sostegno economico da parte dell’organizzazione che ha pianificato e attuato l’attacco. Il che spesso sembra avvenire attraverso fondi costituiti allo scopo grazie al contributo di donatori esteri;
– è possibile che i terroristi talvolta mirino a scongiurare un danno personale percepito come più grave della loro stessa morte. Tale potrebbe essere, ad es., l’infamia conseguente a loro presunte trasgressioni alle norme sociali o al codice morale, oppure a tradimenti politici.


Riferimenti bibliografici

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